L’orsetto copri matita

Avevo un orsetto…

Un orsetto di gomma.

Non un peluche di quelli enormi.

Oddio, avevo anche quello, ma l’orsetto di gomma era differente. 

Era piccolo, e aveva un buco, nel sedere, dove potevi infilare una matita.

Un orsetto un po’ sfigato insomma.

Immaginate di essere orso e di passare la vostra vita con una matita nel sedere, capirete che era proprio un pupazzetto sfigato e siccome mi dispiaceva vederlo così sofferente feci un patto con lui. Io gli avrei risparmiato l’onta della matita e lui mi avrebbe protetto dalle interrogazioni scolastiche. Così, l’orsetto di gomma trovò residenza dentro un astuccio: usciva da lì solo nel momento in cui, il dito dell’insegnante, scorreva il registro per le “interrogazioni a caso”.

Ora potremmo disquisire della  “casualità” delle interrogazioni e sull’utilità crudele di cogliere in fallo un povero studente svogliato, ma noi crediamo nella buonafede degli insegnanti e non polemizzeremo su questo argomento.

L’orsetto, dicevo, usciva dall’astuccio e veniva tenuto stretto nella mano sinistra durante quell’attesa logorante. 

Il pupazzo di gomma aveva il potere di proteggermi da interrogazioni perigliose e quindi diventò un inseparabile portafortuna.

Almeno fino al primo anno di ragioneria (scuola che poi abbandonai per incompatibilità di materie).

Non che credessi davvero nel potere dell’orso di gomma, ero un ragazzino si, ma la testa sapeva benissimo che fortuna e sfortuna fanno parte di un percorso e che spesso ci vede come unici responsabili delle nostre fortune.

Però, nella mia fantasia, avevo salvato quel “portafortuna” da una “fine orribile” e quindi era giusto offrirgli una possibilità di ripagarmi in qualche modo.

“Effe Emme” era la mia compagna di banco. Una bella ragazzina proveniente da quel di Castiglione.

Arrivava a Ravenna in corriera tutte le mattine e faceva a gara con me su “chi prendeva il voto più basso del giorno”.

La compagna di merende, un giorno notò l’orsetto di gomma e avendone scoperto i “poteri taumaturgici” pretese di provarlo. 

L’orsetto la salvò da almeno un paio di importanti interrogazioni. Non era cosa rara: “Effe Emme”, soprattutto durante l’ora di matematica, infilava la sua mano nel mio astuccio in cerca del magico orso.

“Devi prestarmelo” -diceva- “Non posso permettermi un altro tre”.

C’è da dire che ero un ragazzo sensibile e gentile e abbozzai. 

Discutemmo della cosa e decidemmo che, per le interrogazioni più pericolose, ci saremmo divisi l’orso.

Il fatto che fosse probabilmente una scusa per tenerci la mano, nemmeno sfiorava i nostri pensieri di allora.

Eravamo puri. Ci si teneva la mano e contemporaneamente ci si divideva il pupazzo: a lei la testa, a me il culo.

Non capii mai il perché accettai quel compromesso, ma Effe Emme aveva deciso così e per cavalierato accettai il compromesso.

Funzionò bene i primi mesi: Ce la cavammo con qualche cinque e qualche quattro di troppo, ma in me era già forte l’idea di non proseguire l’anno in quella scuola e lo confessai ad Effe Emme.

A quella notizia, gli occhi di Effe Emme si riempirono di pianto: “come avrebbe potuto affrontare il resto dell’anno senza orso di gomma?”

Fu così che glielo affidai.

Le diedi appuntamento alla fine dell’anno scolastico per la restituzione del portafortuna e abbandonai ragioneria senza mai un pentimento.

Effe Emme però  non si presentò mai all’appuntamento e nemmeno ebbi modo di rintracciarla in seguito e confesso che un po’ mi dispiacque, non tanto per l’orso: ormai era chiaro che non lo avrei più rivisto, ma perché non ebbi più modo di riprovare l’emozione di quel contatto tra mani che si incontravano.

Quell’anno abbandonai la mia infanzia.

Commenti

Post più popolari